Transizione ecologica (parte 2): il greenwashing non è più un'opzione

Siamo nell’era della sostenibilità (e del digitale, come abbiamo visto nel dettaglio nell'articolo che puoi leggere qui): tutto ciò che è green vende di più e meglio. Ogni azienda, perciò, lavora alacremente per lavarsi coscienza e reputazione, ed è una cosa indubbiamente positiva, se ci limitiamo alle buone intenzioni. Complici una comunicazione martellante sugli effetti del cambiamento climatico e una rinnovata coscienza ambientale che è il tratto distintivo della cosiddetta Gen Z, il mondo intero si è reso conto di non potersi più voltare dall’altra parte sul tema dell’ambiente. Urge, quindi, un massiccio e collettivo processo di transizione ecologica. Oppure no? In molti casi sembra bastare un massiccio e collettivo processo di greenwashing.

Cos’è il greenwashing

Greenwashing è un neologismo, dunque una parola figlia dei nostri tempi, che sta ad indicare la strategia di comunicazione di certe imprese, organizzazioni o istituzioni politiche finalizzata a costruire un'immagine di sé ingannevolmente positiva sotto il profilo dell'impatto ambientale. Lo scopo di quest’operazione sarebbe quello di distogliere l'attenzione dell'opinione pubblica dagli effetti negativi per l'ambiente dovuti alle proprie attività o ai propri prodotti.

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Mentre i brand di tutto il mondo sventolano la bandiera del politicamente (e climaticamente) corretto, sono ancora troppe le aziende che non stanno facendo abbastanza per l'ambiente, e che si nascondono dietro un dito facendo dichiarazioni di sostenibilità fittizie o esagerate. Lo ha evidenziato un'indagine condotta per conto di Google Cloud su quasi 1.500 dirigenti di 17 Paesi e sette settori, la quale fornisce indicazioni sul livello di impegno delle aziende in materia di sostenibilità. Come riportato nell'articolo che puoi leggere qui, "poco più di un quarto sta sviluppando i propri programmi di sostenibilità, il 22% ha un piano che sta attuando, un altro 22% è in grado di misurarne l’impatto e il 14% è nella fase finale di ottimizzazione del piano in base ai risultati misurati. Quasi un decimo, invece, prevede di iniziare a sviluppare il proprio piano di sostenibilità nel prossimo futuro, mentre il restante 6% non ha un piano o non ha intenzione di presentarne uno a breve.

Quasi tre quarti dei dirigenti – scrive il WSJ – hanno dichiarato di voler portare avanti gli sforzi di sostenibilità, ma di non sapere come farlo. I principali strumenti individuati per migliorare la loro capacità sono stati la presenza di un leader dedicato alla sostenibilità, il sostegno dell’alta dirigenza, strumenti di misurazione avanzati e la formazione di dipendenti e dirigenti. I due modi principali in cui si attendono progressi sono l’innovazione tecnologica e gli investimenti in operazioni o servizi sostenibili."

Meglio fare che raccontare

I consumatori delle nuove generazioni, quelli che spesso vengono definiti semplicemente Millennials e ai quali adesso si è aggiunta con prepotenza la Gen Z, sempre più protagonista nel mondo di tecnologia e consumo, non la mandano certo a dire. Né tantomeno vogliono sentirsela raccontare. Utilizzare diciture come biologico, locale, vegan, dunque, non basta più ad incantare una fascia di consumatori realmente attenti. Ciò che un’azienda fa davvero, al di là di ciò che ama raccontare, è infatti sotto gli occhi dei giovani, oggi più che mai. Non bastano più le etichette a salvare la reputazione, se poi le informazioni sono reperibili su Internet e smascherano i brand finti virtuosi nel giro di pochi clic.

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Rilevante, a tal proposito, la vicenda che ha visto protagonista la viscosa. Consapevoli dell’enorme impatto ambientale dell’industria della moda, molte aziende di abbigliamento hanno deciso di effettuare una svolta green, pubblicizzando il loro largo utilizzo di viscosa. Questo tessuto, il terzo più usato al mondo, è prodotto dalla cellulosa degli alberi ed è quindi pubblicizzato come alternativa sostenibile alle fibre sintetiche per abiti e collezioni venduti come eco-friendly. L’operazione si è però rivelata un vero e proprio greenwashing. L’analisi dei dati reali, infatti, confluita in un report consultabile a questo indirizzo, ha mostrato come ben 27 su 91 brand non possedessero policy sulla tracciabilità dei materiali. Tra questi figuravano anche aziende di lusso come Dolce & Gabbana, Armani, Dior, Prada e Versace. Paradossalmente, un brand minore e considerato tendenzialmente inquinante come H&M si è rivelato uno tra i più chiari nella tracciabilità dei propri fornitori.

Il greenwashing paga?

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Se le operazioni si rivelano una semplice verniciatura di facciata, la risposta è un sonoro no. Il perché è stato chiaramente spiegato tra i punti del Newtrain Manifesto, la presa di posizione che nel 2019 ha messo in evidenza la questione ambientale e che, ad ogni mese che passa, diventa più preoccupante ed attuale. A vent’anni di distanza dal Cluetrain Manifesto del 1999 che descriveva un nuovo mercato in cui era appena entrato Internet con la sua forza dirompente, il nuovo Manifesto aveva messo al centro del business del futuro la sostenibilità.

I 30 punti, elaborati da Simone Aragona, Luisa Capuani, Clarissa Ciano, Francesco Chironna, Vittoria Duò, Ottavia Guidarini, Laura Izzo, Aurora Longo, Alice Nicolin, Antonella Raso, Giorgio Remuzzi, Chiara Sanvincenti, Alice Serrone, Mattia Tresoldi, Serena Vanzillotta, Luisa Zhou, con l’aiuto del Tutor Roberto Tucci, rispondevano (e rispondono in maniera sempre più stringente) alla domanda che apre questo paragrafo. Ecco alcuni esempi:

1) L’ecosostenibilità è un prerequisito per stare sul mercato. È una pretesa urgente e indispensabile, non potrà più essere un vanto pubblicitario o un’invenzione di marketing.

2) La prima cosa di cui ci accorgiamo è quella che cercate di nascondere. Amiamo trasparenza, autenticità e rispetto. Non provate a manipolarci.

7) La scelta delle materie prime e il trattamento delle risorse umane sono il vostro biglietto da visita, se vi siete sbagliati, riscrivetelo.

21) Non è sulle false promesse che si costruisce un rapporto duraturo. Provate con un patto sincero, se volete la nostra fiducia.

23) I racconti delle marche ci piacciono anche, ma abbiamo bisogno di sentir risuonare la verità. Non vendeteci i vostri bisogni, liberateci dai nostri.

29) Aderite alle nostre battaglie, se credete, ma non provate a strumentalizzarle. Non ce ne facciamo nulla del vostro sostegno interessato.

30) Scusateci, ora tocca a noi decidere le regole del gioco: la prima regola è che non si gioca più.

Per consultare l’intero testo del NewTrain Manifesto, visita questo indirizzo.

In un’epoca in cui narrazioni e azioni dei brand sono sotto gli occhi di tutti e i giovani si ergono a giudici nella questione ambientale, le aziende hanno il dovere di agire con molta cautela. Responsabilità è la parola d’ordine. Nei nostri anni e nella situazione climatica in cui ci troviamo, sbagliare non è più permesso.


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