Dietro le quinte del retail: ecco perché non troviamo mai il sale.

Michela Morelli

È una scena quotidiana: supermercato, carrello vuoto, lista della spesa (sul cellulare, cartacea per i nostalgici), determinazione a comprare solo quello che ci serve. Scena successiva: supermercato, carrello pieno e lista ancora tutta da spuntare. E, tra una corsia e l’altra, una domanda sempre più insistente: ma il sale…dov’è?

La disposizione, apparentemente illogica, dei prodotti negli scaffali dei punti vendita non è frutto del caos né del desiderio di vendetta degli addetti al rifornimento. È il risultato di studi, analisi e strategie che, nel loro insieme, prendono il nome di shelf marketing o marketing dello scaffale. Ecco come funziona, e con quale criterio viene deciso dove mettere il sale.

L'architettura della vendita: cos'è lo shelf marketing

Lo shelf marketing parte dal concetto che non si possono semplicemente riempire gli scaffali con la merce e aspettarsi che ogni prodotto sfrutti appieno le sue opportunità di vendita. Per definizione è l'insieme di tecniche e strategie di Visual Merchandising e Category Management finalizzate a ottimizzare l'esposizione dei prodotti all'interno del punto vendita. A che scopo? Per migliorare l'esperienza d'acquisto del consumatore e, di conseguenza, massimizzare il profitto sia per il punto vendita che per il brand dei prodotti esposti.

Perché la verità è che ogni brand può fare tutte le campagne di marketing che vuole, pagare fior di testimonial, inventarsi strategie complicatissime, ma il momento in cui il consumatore decide se acquistare un prodotto invece di un altro è sempre e comunque davanti allo scaffale (se escludiamo lo shopping online, dove questi concetti si applicano in modo un po’ diverso, ma questa è un’altra storia).

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I pilastri dello shelf marketing

Il successo dello shelf marketing dipende da pochi punti, ma essenziali:

  1. posizionamento (altezza): qui ci si gioca tutto. Ciò che è a livello occhi, dove gli occhi del consumatore si posano naturalmente, o a livello mani quindi facilmente raggiungibile, ha molte più probabilità di essere acquistato. È questo il motivo per cui i prodotti base o a basso costo, i formati famiglia e i prodotti di marca del distributore sono spesso collocati nelle posizioni più basse (il cosiddetto livello piedi).
  2. spazio: il facing, cioè il numero di prodotti affiancati in prima fila, determina anch’esso la visibilità e influisce in (quasi) uguale misura sulle probabilità di acquisto. Più facing ha un prodotto, più è difficile ignorarlo. Anche qui è ovvio che i brand leader e i prodotti che generano più entrate ottengono posizioni più favorevoli.
  3. prossimità: un modo particolarmente efficace per invogliare all’acquisto di un prodotto è metterlo vicino a prodotti complementari. Ci bastino due esempi: pane e Nutella o patatine e bibite.
  4. flusso: lo shelf marketing è il braccio destro dello store layout, o disposizione dei reparti. Questa è a sua volta studiata per massimizzare il tempo di permanenza e l'esposizione a quanti più articoli possibile. Ed ecco spiegato perché il sale e lo zucchero sono sempre introvabili, perché cercandoli tra una corsia e l’altra il carrello (magicamente) si riempie.

La mappa del tesoro del retail: il planogramma

Torniamo al mistero del sale. Come viene deciso dove posizionarlo (o vogliamo dire scherzosamente nasconderlo?) Il documento in cui viene indicata la posizione esatta di ogni prodotto sullo scaffale (e nelle corsie) si chiama planogramma. Questo viene costruito tenendo conto di:

  1. marginalità e profitto: la precedenza, nei posti più ambiti, viene data ovviamente ai prodotti con maggiore margine di guadagno;
  2. velocità di rotazione: non è del tutto vero che le posizioni migliori vengano date sempre e comunque ai prodotti più costosi, perché alcuni di essi vengono utilizzati come ancora visiva ma non in pole position assoluta, dato che si vendono bene a prescindere da dove vengono posizionati.
  3. spazio ottimale di assortimento: l’obiettivo di questa distribuzione è ottenere un buon equilibrio tra varietà e saturazione dello scaffale. Il motivo è che troppi prodotti possono confondere e portare alla cosiddetta "choice paralysis", troppo pochi limitano le vendite.

Gli istituti di ricerca e l’ottimizzazione dei planogrammi

Affidarsi ad un istituto di ricerca, per i retailer, può rappresentare un vero vantaggio competitivo. Le metodologie usate dai professionisti di queste realtà sono, tra le tante:

  • heatmap e eye-tracking: nelle ricerche più avanzate vengono utilizzate simulazioni digitali o, a volte, studi sul campo con telecamere e sensori i quali misurano con precisione dove cade lo sguardo del consumatore, per quanto tempo si sofferma sul prodotto e qual è il percorso seguito all’interno del punto vendita.
  • Analisi integrata di categoria: ad essere studiati non sono solo i prodotti e i consumatori, ma le intere categorie merceologiche. Ad esempio se un cliente produce una nuova linea di passate di pomodoro, viene analizzato l’intero reparto e ne vengono identificate zone calde e zone fredde in modo da poter decidere dove posizionare il nuovo prodotto per fargli ottenere le migliori probabilità di essere visto e scelto.
  • Analisi predittiva: analizzando i dati storici delle vendite, si possono fare proiezioni simulando l’impatto di diversi scenari di posizionamento, e aiutando il cliente a stimare il fatturato potenziale ancora prima di mettere effettivamente il prodotto sullo scaffale.

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Il mistero del sale e degli acquisti di riempimento

Tante domande hanno già trovato una risposta finora, ma ancora questo benedetto sale non sappiamo dov’è (e quando lo troviamo, non sappiamo perché è lì). È arrivato quindi il momento di capire perché il sale (e articoli simili) vengono sempre relegati in posizioni nascoste e apparentemente controintuitive.

La risposta è semplice, e in parte l’abbiamo anticipata: il sale, lo zucchero, il latte e il pane sono definiti prodotti destinazione. In altre parole, sono spesso il motivo per cui siamo entrati nel supermercato. Sono articoli essenziali, che marginano relativamente poco e ad elevata frequenza d'acquisto. Il consumatore li cercherà e li comprerà comunque, indipendentemente dalla loro posizione.

Mettendoli in posizioni scomode e seminascoste, il retailer costringe il consumatore a percorrere una distanza maggiore all'interno del negozio. Più tempo e più metri si percorrono, più alta è l'esposizione ai prodotti ad acquisto d’impulso o ad alta marginalità. Ecco perché, come abbiamo anticipato, mentre cerchiamo quello che ci serve abbiamo già riempito il carrello di cose che non ci servono.

Per concludere, il mondo dello shelf marketing è vastissimo e ne abbiamo scalfito solo una minima parte. Potremmo parlare per ore di tutte le tecniche che vengono attuate nei punti vendita per massimizzare i profitti, allungare i tempi di permanenza e invogliare alla scelta di prodotti poco utili ma accattivanti e ad alta marginalità. Potremmo parlare delle luci, della musica, della grandezza dei carrelli, della disposizione delle corsie, ma sarebbe un discorso troppo vasto che merita da solo un insegnamento in un corso di laurea.

Per ora ci limiteremo a raccogliere questa sfida: il retailer, specialmente se si tratta di una piccola realtà, non può improvvisare. Non può perché gli altri non lo fanno. In un’epoca in cui le vendite online continuano ad erodere il mercato “fisico”, l'esperienza in negozio deve essere impeccabile e scientificamente ottimizzata. E affidarsi all’esperienza di un istituto di ricerca può ai suoi strumenti di analisi predittiva e comportamentale può significare trasformare lo scaffale da un semplice luogo di stoccaggio a un potente strumento di vendita e branding. Il futuro del retail è nella capacità di leggere e influenzare la mente e il percorso dello shopper. Parola d’ordine: smettere di sperare che il proprio prodotto sia trovato ma fare in modo che sia impossibile non vederlo.


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