Dura meno di una settimana eppure la sua eco risuona per almeno un anno, anche di più per le edizioni più controverse. Sanremo non è solo o non è più una competizione musicale, è un evento del costume italiano. E in un certo senso lo è sempre stato. Ma perché, se la società muta velocemente e la tecnologia cambia radicalmente le nostre abitudini, l'interesse generato dal festival della città dei fiori non cambia mai? La risposta sta in un libro del 1980.
Definirlo Festival della canzone italiana sembra ormai riduttivo, tant'è vero che spesso si omette la parola Festival chiamando l'evento semplicemente "Sanremo", come la città che lo ospita e che ne è diventata il simbolo.
Il Festival di Sanremo non è un programma televisivo, è un vero e proprio fenomeno di costume che ci vede tutti coinvolti, tra appassionati e detrattori. Ogni anno, quando si comincia a parlare di Festival, la popolazione italiana si divide in due granitiche fazioni: chi guarderà il Festival e chi no. Alla fine della kermesse, però, entrambe le fazioni sanno ciò che è accaduto minuto per minuto, chi indossava cosa, quali sono stati i fuori programma e gli incidenti di percorso. La domanda "Dov'è Bugo?" risuonerà familiare anche a chi l'anno scorso non ha guardato un solo minuto di Festival.
Perché del Festival si parla, si parla fino allo sfinimento in ogni salotto televisivo e persino nei telegiornali. Si parla (poco) delle canzoni e tantissimo dei fenomeni sociali e culturali che la kermesse trascina con sé mettendoli sul palcoscenico più famoso d'Italia.
L'edizione dell'anno scorso, resa celebre dal già citato fuori programma di Morgan e Bugo ma ancor più dalla conduzione di Amadeus e Fiorello, è stata la prova provata, casomai ci fosse stato bisogno di dimostrarlo, che il Festival non lascia indifferenti nemmeno gli italiani che decidono di non guardarlo. Anzi, in un'epoca social in cui ogni azione può essere condivisa e motivata, innescando veri e propri movimenti, guardare un programma televisivo o affermare pubblicamente di non guardarlo può significare prendere posizione in nome di una causa più importante.
A schierarsi contro il Festival, l'anno scorso, erano state soprattutto le femministe. Ad offenderle era stata la scelta di portare sul palcoscenico il rapper Junior Cally, che in alcuni testi aveva trattato con pochissima delicatezza il tema del femminicidio e della violenza sessuale, e le affermazioni del conduttore Amadeus in riferimento alla co-conduttrice Francesca Sofia Novello, definita "una donna bellissima capace di stare vicino a un grande uomo stando un passo indietro". Fraintendimento oppure no, l'iniziativa di boicottare il Festival per mostrare la propria indignazione ha dimostrato che la kermesse è un piedistallo dal quale non si possono fare affermazioni "leggere" senza conseguenze.
Quest'anno più che mai la realizzazione del Festival è stata difficile e controversa, addirittura messa in dubbio per l'ancora difficile situazione sanitaria. Al momento in cui scriviamo sembra che una soluzione sia stata trovata e che il Festival debba regolarmente andare in onda dal 2 al 6 marzo, pur senza pubblico in sala.
Ma perché, nonostante la situazione difficile e le tante emergenze in corso (ultima ma non per importanza la crisi politica), il tema Sanremo non smette di interessarci? La risposta sta nel titolo di un libro di Gianni Borgna del 1980: "La grande evasione. Storia del Festival di Sanremo: 30 anni di costume italiano". Il Festival, come ogni anno se non di più, rappresenta un momento di evasione e si rafforza nell'immaginario collettivo quanto più è difficile la situazione economica, politica e sociale. Perché più difficile è la realtà con cui ci si deve confrontare quotidianamente, più forte è il desiderio di evasione. Di smettere di pensare alle mascherine, ai decreti, alle mille questioni ancora da risolvere, e preoccuparsi solo di quanto sia orecchiabile la canzone dell'artista del momento, del cambio d'abito delle conduttrici e dei fuori programma di cui ridere sui social. Fosse anche solo per qualche sera.
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